Se il tuo curriculum vitae assomiglia più a una maratona Netflix che a un episodio unico ben strutturato, questo articolo è per te. E no, non sei l’unico a sentirti vagamente in colpa ogni volta che aggiorni quella sezione “Esperienze Lavorative” su LinkedIn. Di nuovo. Per la quinta volta in tre anni. La domanda che probabilmente ti ronza in testa durante le notti insonni è: c’è qualcosa che non va in me? Perché non riesco a restare fermo? Perché quella collega che fa lo stesso identico lavoro da dieci anni sembra perfettamente felice mentre io, dopo sei mesi, già penso a come scrivere le dimissioni senza sembrare un’ape impazzita?
La psicologia del lavoro ha delle risposte interessanti su questo fenomeno che chiamano job hopping. E spoiler alert: non sei necessariamente un caso disperato. Ma forse, solo forse, è il momento di capire se stai crescendo o se stai scappando.
Il Mito dell’Orologio d’Oro e Perché Nessuno Lo Vuole Più
Per generazioni, il sogno era semplice: entri in azienda a ventitré anni, ti fai quarant’anni di onorata carriera, ricevi un orologio d’oro alla pensione e boom, sei un vincente. Questo modello ha dominato il Novecento e ha reso felici i nostri nonni. Il problema? Viviamo in un’epoca completamente diversa.
Gli studi sulla trasformazione delle carriere moderne mostrano che il vecchio modello della carriera organizzativa è stato sostituito da quello che gli esperti chiamano “protean career” o “boundaryless career”. In pratica, carriere più fluide, autogestite e basate su competenze trasferibili piuttosto che su fedeltà aziendale a vita. Douglas Hall, professore alla Boston University, ha documentato ampiamente questo passaggio già nei primi anni Duemila.
Nel settore tech, per esempio, cambiare lavoro ogni due o tre anni non solo è normale, ma è spesso visto come segno di proattività e ambizione. Le aziende stesse hanno smesso di aspettarsi che tu resti per sempre: ora vogliono che tu porti valore finché ci sei, punto. Quindi se ti senti un traditore seriale del mondo del lavoro, respira. Il contesto è cambiato. Ma attenzione: questo non significa che tutte le ragioni per cambiare siano uguali.
Le Due Facce del Job Hopping: Crescita o Fuga?
Ecco dove le cose si fanno interessanti. La psicologa italiana Lucia Montesi ha proposto una distinzione che dovrebbe essere stampata su ogni lettera di dimissioni: esistono motivazioni funzionali per cambiare lavoro e motivazioni di fuga.
Le motivazioni funzionali sono quelle belle, quelle Instagram-friendly: vuoi imparare nuove competenze, cerchi responsabilità maggiori, hai trovato un’opportunità che si allinea meglio ai tuoi valori. Sei energizzato, hai un piano, sai dove stai andando. Non stai scappando DA qualcosa, ti stai muovendo VERSO qualcosa. Differenza sottile ma cruciale.
Le motivazioni di fuga, invece, sono quelle che ti fanno svegliare alle tre di notte con l’ansia: cambi perché non sopporti il tuo capo, perché ti senti un impostore, perché appena iniziano le riunioni one-on-one dove potrebbero darti feedback sinceri tu già stai guardando le offerte su Indeed. Qui il problema non è il lavoro: sei tu che stai correndo via da qualcosa di più profondo.
Mark Savickas, uno dei massimi esperti mondiali di psicologia della carriera, insiste su un punto chiave: nelle carriere moderne devi essere capace di costruire una narrazione coerente attraverso i tuoi vari ruoli. Anche se hai fatto il barista, poi il social media manager, poi il consulente, deve esserci un filo rosso che colleghi tutto. Se riesci a raccontare una storia che ha senso, stai costruendo. Se ogni cambio è un capitolo random senza connessione, probabilmente stai improvvisando nella speranza che nessuno se ne accorga.
I Segnali Che Stai Crescendo
Come fai a sapere se il tuo è job hopping sano? Riesci a spiegare chiaramente perché hai lasciato ogni lavoro e cosa hai imparato, mantieni buoni rapporti con ex colleghi e capi, ogni transizione ha aggiunto qualcosa di concreto al tuo skillset. Ti senti eccitato dalle nuove sfide, non solo sollevato di essere scappato dal posto precedente, e hai sempre un piano quando cambi, non agisci per puro panico o impulso.
Se ti riconosci in questi pattern, congratulazioni: stai probabilmente navigando il mercato del lavoro moderno come un professionista adattabile. La ricerca sulla career adaptability di Savickas e colleghi mostra che questa capacità di muoversi intenzionalmente tra ruoli diversi è associata a maggiore benessere e soddisfazione professionale.
Quando Il Cambio Diventa Fuga: Le Bandiere Rosse
E ora parliamo dell’elefante nella stanza. Ci sono situazioni in cui cambiare continuamente lavoro non è strategia, ma sintomo. E qui la psicologia clinica entra in gioco con alcune spiegazioni che potrebbero farti male, ma sono importanti.
La Teoria dell’Attaccamento Sul Lavoro
Ricordi la teoria dell’attaccamento sviluppata da Bowlby che hai studiato a psicologia o sentito in qualche podcast? Quella roba su come i bambini si legano ai genitori? Bene, risulta che gli stessi pattern si ripresentano anche sul lavoro.
John Bowlby ha sviluppato questa teoria negli anni Cinquanta, e da allora è stata applicata a praticamente ogni area della vita umana, lavoro incluso. Le persone con stile di attaccamento evitante tendono a fuggire dalle situazioni che richiedono vulnerabilità o impegno emotivo profondo. Sul lavoro, questo si traduce in: ogni volta che il rapporto con i colleghi inizia a diventare significativo, ogni volta che ti chiedono di impegnarti davvero in un progetto a lungo termine, ogni volta che dovresti mostrare chi sei veramente, boom, dimissioni.
Studi recenti sul workplace attachment confermano che questi pattern infantili si ripetono negli ambienti professionali. Non è che sei cattivo o sbagliato: semplicemente, hai imparato molto tempo fa che legarsi troppo è pericoloso, e ora applichi la stessa regola all’ufficio.
ADHD e La Maledizione della Noia
Parliamo di una cosa seria ma spesso ignorata: il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività negli adulti. Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali dell’American Psychiatric Association documenta che gli adulti con ADHD hanno spesso storie lavorative frammentate.
Il motivo? Le persone con ADHD hanno bisogno di stimolazione costante per mantenere l’attenzione. La fase iniziale di un nuovo lavoro è perfetta: tutto è nuovo, devi imparare mille cose, c’è varietà, adrenalina. È come la fase dell’innamoramento di una relazione. Ma quando arriva la routine, quando devi fare le stesse cose per mesi, il cervello ADHD va letteralmente in letargo. E tu, senza capire perché, inizi a sentirti irrequieto, annoiato, pronto a cercare altro.
Attenzione: questo non significa che se cambi spesso lavoro hai automaticamente l’ADHD. Ma se oltre al job hopping noti difficoltà croniche di attenzione, impulsività e irrequietezza in molte aree della vita, potrebbe valere la pena parlarne con un professionista.
La Sindrome dell’Impostore e Il Reset Continuo
C’è poi un territorio intermedio che riguarda tantissime persone, specialmente quelle brillanti e competenti: la sindrome dell’impostore descritta da Clance e Suzanne Imes nel 1978. Da allora non ha fatto che peggiorare nell’era dei social media e delle aspettative irrealistiche.
La sindrome dell’impostore ti fa sentire costantemente un fake, un imbroglione che prima o poi verrà smascherato. E sai qual è il modo migliore per non essere mai smascherato? Cambiare lavoro prima che qualcuno scopra che “non sei abbastanza bravo”.
Ogni nuovo inizio ti dà un reset: nessuno si aspetta che tu sappia tutto, gli errori sono perdonati, sei nella fase protetta dell’apprendimento. Ma quando le aspettative crescono e dovresti dimostrare vera competenza, l’ansia dell’impostore torna a bussare. E così ricominci da capo. È un ciclo vizioso che ti fa muovere tantissimo senza mai crescere davvero.
Studi recenti collegano la sindrome dell’impostore a maggiore intenzione di lasciare il lavoro e minore soddisfazione professionale. È come cambiare palestra ogni volta che gli allenamenti diventano difficili: ti muovi molto, ma non costruisci muscoli.
I Motivi Legittimi Per Cui Devi Proprio Andartene
Dopo tutta questa psicologia profonda, facciamo una pausa per dire una cosa ovvia ma importante: ci sono situazioni in cui cambiare lavoro, anche frequentemente, è non solo normale ma necessario.
Il burnout è una sindrome riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Non è “essere un po’ stanchi”: è esaurimento emotivo cronico, cinismo verso il lavoro e sensazione di inefficacia totale. Se sei in burnout, restare “per dimostrare stabilità” è autolesionismo, non virtù.
Le situazioni di mobbing, molestie o discriminazione richiedono fuga immediata. La ricerca sul bullying sul lavoro mostra che rimanere in ambienti tossici produce danni psicologici seri e duraturi. Se il tuo capo è un narcisista abusivo o i tuoi colleghi ti fanno mobbing, non sei tu il problema: è l’ambiente. E devi uscirne.
Anche il semplice mismatch tra personalità e ruolo è legittimo. Il modello Person-Environment Fit della psicologia organizzativa mostra che la soddisfazione lavorativa dipende enormemente dall’allineamento tra chi sei e cosa fai. Se sei una persona altamente creativa costretta in un ruolo ripetitivo e burocratico, non sei “instabile”: sei una pianta nel vaso sbagliato.
Come Capire Da Che Parte Stai
Allora, la domanda da un milione di euro: come fai a sapere se il tuo job hopping è sano o problematico? Ecco alcune strategie pratiche che vengono dalla psicologia di carriera.
- Tieni un diario professionale. Non solo i fatti, ma le emozioni e le motivazioni. Cosa ti ha spinto davvero a cambiare? Come ti sentivi nei giorni prima delle dimissioni? Dopo tre o quattro cambi, rileggi tutto. I pattern emergeranno con chiarezza brutale.
- Fai il test del filo rosso. Prova a raccontare una storia coerente del tuo curriculum. Riesci a collegare tutti i tuoi ruoli in una narrazione che ha senso? O ogni cambio è stato fondamentalmente random?
- Analizza come finiscono i tuoi lavori. Lasci sempre in modo professionale, con preavviso adeguato e rapporti mantenuti? O c’è un pattern di fughe improvvise, ponti bruciati, conflitti irrisolti?
- Misura quanto dura l’entusiasmo. Se il nuovo lavoro ti entusiasma per tre-sei mesi e poi crolla sempre, il problema non è il lavoro: sei tu che stai cercando la scarica di dopamina del “nuovo” senza mai affrontare il necessario plateau della crescita reale.
E la cosa più importante: se dopo tutta questa riflessione hai ancora dubbi, parla con uno psicologo o career counselor. La ricerca mostra che anche percorsi brevi di consulenza di carriera possono aumentare enormemente l’autoconsapevolezza e la capacità di fare scelte allineate ai propri valori.
La Verità Scomoda Sulla Crescita Vera
Vuoi sapere qual è la differenza principale tra chi cresce davvero e chi gira in tondo cambiando continuamente scenario? La capacità di stare nel disagio.
La vera crescita professionale non arriva nei primi sei mesi eccitanti di un nuovo lavoro. Arriva quando devi affrontare un feedback difficile. Quando devi ammettere di non sapere qualcosa. Quando un progetto va male e devi capire perché. Quando le relazioni con i colleghi diventano complesse e devi navigare conflitti reali.
Cambiare continuamente ti permette di evitare tutto questo. Sei sempre nella fase protetta del “nuovo”, dove gli errori sono perdonati e le aspettative basse. Ma è come ripetere sempre il primo mese di palestra: ti muovi molto, ma non diventi più forte.
La psicologa Carol Dweck, famosa per i suoi studi sulla growth mindset, sottolinea che le persone con questa mentalità vedono le sfide come opportunità, non come minacce. Non scappano quando le cose si fanno difficili: si appoggiano al disagio e crescono attraverso di esso.
Quindi, cosa significa cambiare continuamente lavoro secondo la psicologia? Dipende. Dipende dal perché lo fai, da come lo fai, e da cosa ottieni ogni volta. Se stai costruendo competenze, allargando la tua rete, muovendoti verso obiettivi chiari e mantenendo relazioni positive, probabilmente stai semplicemente sfruttando al meglio un mercato del lavoro moderno e fluido. La stabilità del Novecento non esiste più, e l’adattabilità è diventata una competenza chiave.
Se invece ti ritrovi sempre con gli stessi problemi in posti nuovi, se scappi ogni volta che le cose si fanno emotivamente impegnative, se il pattern è fuga più che strategia, allora forse è il momento di fermarti e guardare dentro invece che intorno. La domanda vera non è “Quante volte ho cambiato lavoro?” ma “Sto crescendo o sto girando in tondo?”. E solo tu puoi rispondere. Ma ora, almeno, hai gli strumenti per farlo onestamente.
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